Osservare le cose, i gesti, i dettagli, l’anima e le mani, volgendosi alla radice degli eventi che rendono viva la storia. Senza distorsione e orpelli. L’occhio vigile di Tina Modotti (Udine, 1896 – Città del Messico, 1942) coglie il perché della moltitudine di storie che si intrecciano a quella oggettiva, sociale e collettiva.

Attivista instancabile nel campo della fotografia e del fotoreportage, Tina Modotti apprende le basi della tecnica fotografica frequentando il fotografo Edward Weston. Si distingue immediatamente per uno stile documentario ma caratterizzato da un ordine estetico, che porta alla superficie le macchie, le crepe, ma anche la bellezza del tessuto sociale, i suoi simboli, gli emblemi delle lotte, gli strumenti di quel mondo operaio descritto con minuzia. È qui il suo più grande contributo. Portare alla luce, rendere visibile una narrazione essenziale, manifestare l’azione degli uomini e delle donne che scrivono la storia.

La fotografa-rivoluzionaria di origini italiane trascorre parte della sua vita in Messico, partecipando alla temperie rivoluzionaria degli anni Venti, di cui restituisce una sintesi chiara ed essenziale frutto di uno spirito impegnato, che non si tira indietro al richiamo della narrazione storica.
Porta alla luce quel conflitto mai risolto tra vita e arte che definisce gli eventi, Tina Modotti. Lo fa attraverso uno sguardo profondo, nitidissimo e sicuro, ma allo stesso tempo guidato da una sensibilità unica e da una disarmante delicatezza.
Proprio le mani, simbolo di azione, di operosità e perseveranza diventano congiunzione concreta dell’uomo con la vita, raccordo, metafora.
E cosí, nel 1925 scrive a Edward Weston: “L’arte non può esistere senza la vita, lo ammetto, ma nel mio caso la vita è sempre in lotta per il predominio e l’arte ne soffre”.
Ascolto consigliato: Silvio Rodriguez, Sueño con serpientes.
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